“Un essere umano è parte del tutto, che chiamiamo “Universo”, una parte limitata nel tempo e nello spazio. Sperimenta se stesso, i propri pensieri e sentimenti, come qualcosa di separato dal resto, un tipo di illusione ottica della cosciena. L’illusione è un tipo di prigione per noi, che ci restringe ai nostri desideri personali e all’affetto per poche persone intorno a noi. Il nostro scopo deve essere quello di liberarci da questa prigione aprendo il nostro circolo di compassione per abbracciare tutte le creature viventi e la natura intera nella sua bellezza.” Albert Einstein

Illustrazioni di Fatchurofi.

La meditazione di consapevolezza origina dagli insegnamenti di Siddharta Gautama, il Buddha storico, e consiste in una pratica in cui si sviluppa la concentrazione attraverso l’osservazione dei continui mutamenti di mente e corpo.

Ad ogni modo, per praticarla non è richiesto di abbandonare la propria religione di appartenenza e non è richiesto di aderire ad alcun aspetto devozionale.

La meditazione più diffusa in Occidente è la meditazione Vipassana, in cui in generale ci si concentra sullo sviluppo della consapevolezza dei processi di corpo e mente, alternando la meditazione seduta e camminata, l’osservazione del respiro e l’uso di una etichetta mentale per i processi che vengono osservati.

Da questa tradizione meditativa, si sono sviluppate una serie di applicazioni cliniche e psicosociali riassunte nell’etichetta “mindfulness”.

Infatti, negli anni ‘70, grazie agli studi di Jon Kabat-Zinn, la tecnica della meditazione buddhista ha trovato applicazione in ambito clinico, dando vita a programmi di riduzione dello stress come l’MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction).

Grazie a queste pratiche, è possibile incrementare la concentrazione, l’attenzione, l’equilibrio emotivo, la capacità di sintonizzazione con gli altri.

Tale strumento è risultato efficace per diverse problematiche legate allo stress, come l’ansia, la depressione, il dolore cronico e nell’incrementare le difese immunitarie. Inoltre, è risultato un ottimo alleato per varie terapie e farmaci, non come sostituto ma come supporto in grado di aumentarne il potere curativo.

Gli interventi mindfulness-based si rivolgono a persone senza, o quasi, esperienza pregressa di meditazione e permettono di invitare in modo semplice a sperimentare in prima persona e in maniera diretta lo stato consapevolezza non discorsiva attraverso un linguaggio contemporaneo che facilita l’esperienza.

Inoltre, crea in modo attivo una stretta connessione con la vita quotidiana, favorendo il trasferimento della consapevolezza alle concrete condizioni di sofferenza delle nostre vite.

L’intenzione e la prospettiva dietro i programmi di mindfulness è quella di ricontestualizzare una tradizione contemplativa all’interno della medicina, della scienza e della sanità affinché ciò possa essere utile per chi ha bisogno di gestire meglio il rapporto con la propria sofferenza.

Facciamo chiarezza…

Mindfulness è la traduzione inglese del termine sati, un termine di una lingua antica, il Pali.

In italiano è tradotto con consapevolezza o presenza mentale, ma il significato originario indicava una presenza di mente e cuore.

Mindfulness è “la consapevolezza che emerge attraverso il prestare attenzione allo svolgersi dell’esperienza (interna ed esterna) momento per momento con intenzione, nel presente e in modo non giudicante” (Jon Kabat-Zinn).

Quindi con la consapevolezza, o presenza mentale, cominciamo a vedere il mondo non come ci aspettiamo che sia, vogliamo che sia o temiamo che potrebbe diventare.

La meditazione non è una religione, ma un metodo di allenamento mentale.

La consapevolezza può essere coltivata sia nel corso della meditazione formale (cioè le sessioni in cui si sta seduti o si cammina, portando l’attenzione al respiro o alle sensazioni del corpo) sia nelle azioni quotidiane, la cosiddetta meditazione informale.

Non occorre per forza sedersi a gambe incrociate sul pavimento, ma volendo lo si può fare. Si può anche scegliere di portare una deliberata consapevolezza a qualunque cosa si faccia, che si stia in autobus, in treno, andando a piedi al lavoro.

La meditazione non è uno strumento di benessere e rilassamento (che possono essere degli effetti collaterali), ma uno strumento di conoscenza di sé, in cui ci si allena a diventare attenti e presenti a ciò che la mente-corpo vive nel momento presente.

Lo scopo dei programmi di meditazione di consapevolezza è infatti quello di trasformare la nostra relazione con la sofferenza, il disagio e lo stress attraverso una modalità diversa dal tentativo di risolvere e togliere di mezzo queste esperienze, ma considerarle parte della vita.

La pratica è facile e difficile al tempo stesso.

Facile perché non ha bisogno di nulla se non della volontà.

Difficile perché la nostra mente è continuamente condizionata da un continuo e automatico flusso di pensieri, ricordi, reazioni emotive, aspettative e pianificazioni…e in poco tempo ci ritroviamo assenti, immersi in uno spazio che non è il nostro presente.

Ma in generale meditare non ha niente a che vedere con l’idea di riuscita o fallimento. Anche quando sembra difficile, si impara qualcosa su come funziona la mente, con conseguenti benefici psicologici.

In che modo la meditazione può aiutarci a gestire la sofferenza?

Il processo essenziale della pratica meditativa è la disidentificazione dai “contenuti” dell’esperienza, che nei casi di sofferenza possono essere: condizioni fisiche patologiche, preoccupazioni per il futuro, pensieri ripetitivi e ossessionanti, ruminazioni depressive, emozioni difficili o intollerabili.

Il potenziale beneficio della meditazione è quello di vedere le componenti della sofferenza come “pure e semplici” sensazioni, pensieri, emozioni, cioè fenomeni che ci attraversano.

L’assumere questa posizione distaccata di fronte ai propri vissuti, chiamata osservazione non identificata, consente di aumentare l’attenzione e la consapevolezza e uscire dai propri cicli di reazioni automatiche, pensieri negativi e comportamenti disfunzionali.

Nello specifico, durante la meditazione la persona è invitata a osservare questi processi, cercando di portarvi la curiosità necessaria a conoscerli meglio nel loro svolgersi e manifestarsi.

Durante la pratica, il processo di “spacchettamento” dell’esperienza nelle sue componenti emotive, fisiche e cognitive, permette alla persona di entrare nello specifico, approfondendo le caratteristiche della propria esperienza.

Questo perché la sofferenza origina spesso dall’attribuzione di un giudizio (pensiero) a una emozione o sensazione fisica, che presa a sé (cioè senza l’attribuzione di una valutazione) arrecherebbe meno patimento.

Ciò che spesso la “mente parlante” non ci consente di vedere è proprio che i pensieri sono solo pensieri e che le possibilità della mente non si esauriscono nel solo pensare (ma ad esempio nel dirigere consapevolmente l’attenzione dove vogliamo).

La capacità essenziale da apprendere è simile a quella di uscire dal cinema della mente in cui vengono proiettati pensieri, immagini e relative emozioni e sensazioni fisiche, e vederli in quanto tali, acquisendo così una maggiore libertà.

Molto spesso siamo abituati a esprimere la nostra esperienza di disagio con frasi tipo “mi sento male”, “ho l’ansia”, “sono arrabbiato” che, oltre ad essere generiche, esprimono una forte identificazione con la sensazione o emozione provata, come se noi fossimo quella esperienza.

Si pensi ad esempio alla differenza che c’è tra l’espressione “ho l’ansia” e “in questo momento il battito del mio cuore è accelerato, e la mia mente si è affollata di pensieri negativi su ciò che mi sta succedendo e questo ha prodotto un’apprensione che ha modificato il mio respiro…”.

Oppure, la differenza tra “sono triste”, in cui mi identifico con l’emozione generica di tristezza, e “a partire da una serie di immagini che ho visto nella mia mente, ho sentito salire un groppo alla gola e poi ho finito per sentirmi inadeguato”.

Con l’attenzione e l’osservazione non identificata si può notare come un’emozione non sia altro che un “pacchetto” di manifestazioni fisiche cui noi attribuiamo un giudizio, una valutazione, che a sua volta ne definisce il valore positivo o negativo.

Andando a vedere da vicino i nostri cicli di sofferenza, possiamo rintracciare come nascono e come si alimentano, sia negli esercizi formali che durante la vita quotidiana.

Nelle nostre attività quotidiane possiamo quindi portare l’uso dell’attenzione appreso durante la pratica formale e i benefici in termini di autoregolazione.

E’ comunque importante specificare che l’attenzione consapevole è l’essenza della meditazione ed è coltivata per se stessa come un fine, non solo per gestire il dolore.

Perché il formato di gruppo?

La meditazione di consapevolezza può essere svolta sia individualmente e quotidianamente in un luogo tranquillo e lontano da distrazioni di ogni sorta, sia in contesti di gruppo (a cadenza settimanale o mensile, o in ritiri di più giorni), in cui si alterna la pratica formale a scambi delle proprie esperienze di meditazione.

Partecipare a un gruppo permette di imparare l’uno dall’esperienza dell’altro e non solo dalla propria. Ascoltare la descrizione delle esperienze altrui, le mille difficoltà e fatiche incontrate dagli altri valida gli ostacoli che ciascuno incontra e “normalizza” la percezione di inadeguatezza che si sperimenta nel cominciare a realizzare la natura instabile, irrequieta e incontrollabile della mente.

A tal fine i partecipanti sono infatti invitati a condividere la propria esperienza nel modo più descrittivo e preciso possibile, poiché ciò permette di sviluppare maggiormente la capacità di osservazione e cogliere la potenza della nostra tendenza a giudicare e categorizzare ancora prima di aver visto, sentito e percepito.

La dimensione “non giudicante” della mindfulness si riferisce non solo e non tanto al rendersi consapevoli della tendenza irrefrenabile a dare giudizi di valore (giusto/sbagliato, buono/cattivo, stimabile/disprezzabile ecc..), ma soprattutto al rendersi conto di quanto continuamente sovrapponiamo preconcetti e pre-giudizi all’esperienza effettiva, reale, ritrovandoci a vivere in una realtà ristretta e incapsulata nei nostri pensieri.

La grande varietà e diversità delle reazioni suscitate negli altri a partire dalle stesse condizioni che essi stanno sperimentando, permette ai partecipanti di sorprendersi e di diventare coscienti delle modalità abituali di “funzionamento mentale”.

Si favorisce una rottura della sfera chiusa dell’autoreferenzialità e grazie al disidentificazione le persone possono fare scoperte sul proprio particolare modo di entrare in relazione col mondo. E, ancora più importante, la partecipazione al gruppo ci permette di capire che al di là delle differenze ci ritroviamo tutti a sperimentare le stesse esperienze universalmente umane e comuni: la paura della sofferenza, l’impulso a evitarla, il desiderio di pace.

Cosa mettere nella valigia del praticante?

Volontà, responsabilità e motivazione

Le risorse interiori di autocura possono essere sviluppate solo ed esclusivamente attraverso un lavoro continuativo: senza la motivazione a lavorare su di sé e la ferma coscienza che nessun altro può fare il lavoro al posto nostro, non è possibile percorrere alcuna strada di trasformazione.

Solo se chiedi molto puoi ottenere molto. Ogni volta che questo accade, la soddisfazione profonda, il senso di conseguimento, la presa di contatto con il coraggio e la tenacia che non si sapeva di avere sono potentissimi fattori trasformativi che permangono.

Si ricorda che lo scopo è raggiungere fiducia in sé nel promuovere comportamenti salutari, favorire l’autonomia, evitando l’innescarsi di meccanismi di dipendenza, e il rischio di credere che i benefici non dipendano da noi stessi ma da altri.

Orientamento non finalizzato al risultato

La pratica di meditazione consiste nel portare consapevolezza a ciascun momento così com’è e quindi promuovere un atteggiamento di non sforzo, non orientamento al risultato,ed evitamento della sofferenza.Un effetto collaterale è che la mente, meno preoccupata di fare le cose corrette o “bene”, si apre e si rende più ricettiva.

Inoltre, continuando a praticare, si potrà sviluppare un interesse sempre più convinto e più pieno di energia all’essere attenti, consapevoli, come stato desiderabile in sé. Sorge l’interesse per la consapevolezza come stato di coscienza, a prescindere dai suoi contenuti.

Bibliografia

  • Zindel V. Segal, J. Mark Williams, John D. Teasdale, Mindfulness. Al di là del pensiero, attraverso il pensiero. Bollati Boringhieri, Torino (2014).
  • M. Williams, D. Penman, Metodo Mindfulness. Mondadori, Milano (2014)

Illustrazione di copertina di Ricardo Bessa.